Il PERCORSO ARTISTICO DI GAETANO DI RISO

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di Elvira Procaccini  

 

 

Gaetano Di Riso è nato a Lettere, in provincia di Napoli, nel 1949. Nonostante si trovi a soli 400 metri sul livello del mare, Lettere è un paese di montagna. Senza dubbio lo è per i suoi abitanti, che coltivano la terra fra il vento e le rocce, mentre il mare lo guardano dall’alto. Di Riso ha vissuto lì la sua infanzia, in quel paese tutto in salita, in mezzo a campi coltivati e a ripidi pendii; spesso ha giocato ai piedi del castello medievale, che si affaccia sul mare abbracciando tutta la piana del Sarno e fronteggiando il Vesuvio

Devono essere stati determinanti, quei luoghi, per la formazione artistica di Di Riso, perché li ritroveremo in quasi tutti i suoi lavori. A volte saranno facilmente individuabili, come nelle prime opere, che risalgono agli inizi degli anni Settanta; altre volte appariranno più o meno riconoscibili, perché filtrati a lungo dalla memoria; ma spesso li percepiremo soltanto come sensazione, una sensazione quasi tattile, regalataci da una nuvola di passaggio in un cielo grigio-azzurro.

  L’artista, verso i quindici anni, va a vivere a Castellammare di Stabia e s’iscrive all’Istituto d’Arte di Sorrento. In costiera ci sono altre luci, altri odori, e il castello di Lettere appare molto diverso visto da lontano. Conseguita la maturità, continua gli studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove frequenta il corso diScenografia diretto dal prof. Tony Stefanucci e si diploma nel 1973. Sia il metodo d’insegnamento applicato da Stefanucci, che dà molto valore all’esperienza continua e diretta, sia la stima e l’amicizia che si vengono a creare fra allievo e maestro, sono di forte stimolo per Di Riso, che ha occasione di verificare in maniera diretta i linguaggi dell’arte contemporanea e di approfondirne gli strumenti operativi.

  Sempre durante gli anni dell’Accademia risulta determinante, per la sua formazione artistica, l’amicizia con Camill Gugg, un artista tedesco che aveva frequentato, prima e durante il “Bauhaus”, l’Accademia di Weimar, divenendo poi  assistente del padre alla cattedra di “Paesaggio”. Alla fine della seconda guerra mondiale, Gugg si trasferisce a Sorrento, dove lavora assiduamente nel campo della pittura, dimostrando di apprezzare la cultura mediterranea con lo sguardo di un vero artista “romantico”. Il paesaggio, infatti, è per lui un’unità al cui interno i vari aspetti si armonizzano perfettamente attraverso la tecnica del “saper guardare”. Essa non consiste, per Gugg, nella meticolosa restituzione di una realtà visiva più o meno presunta; ma nel filtrare la scena attraverso una selezione degli elementi e una particolare attenzione alle luci, affinché niente, nella resa pittorica, vada oltre l’armonia recepita dall’artista. Per molti anni i due pittori mettono proficuamente a confronto le loro esperienze e così, naturalmente, ha inizio per Di Riso il vero e proprio lavoro nel mondo dell’arte.

  Ancora studente dell’Accademia, infatti, partecipa ad alcune mostre, fra cui una collettiva alla galleria d’Arte La Scogliera di Vico Equense, dove espone una serie di tempere. In esse appaiono analizzati macroscopicamente elementi e oggetti di uso comune.

  La mostra successiva, una personale alla galleria In Art di Castellammare, è costituita da venti pregevoli lavori eseguiti ad olio-tempera. Si percepiscono qui alcuni echi degli studi di Scenografia (l’artista si è da poco diplomato). Gli spazi, sia d’interni che di esterni, convivono sulla tela, dove la pittura appare distesa magistralmente attraverso dolci passaggi di luce, mentre gli aspetti della natura e del paesaggio si alternano a cavalieri, a bambini, a pietre o a forme circolari.

  Nascono, contemporaneamente, altre opere. Alcuni elementi già esistenti si conciliano con esperienze tridimensionali: stoffe intrise di gesso vengono modellate sulla tela nascondendo parte della pittura (figure umane o angeliche, diritte o a testa in giù); merletti immersi nella colla vengono lasciati cadere sul dipinto, così che, in trasparenza, questo resta leggibile. Si tratta, il più delle volte, di gabbie vuote e allucinanti; più allucinanti ancora, per il rigore geometrico che le caratterizza, in quegli spazi dove il merletto manca.

  Questi aspetti, e senza dubbio molti altri, accompagnano le opere di Di Riso fino alla fine degli anni Settanta. «…v’è nella sua inquadratura generale… un “modus” di concepire e d’attuare, di sistemare e di organizzare gli accadimenti pittorici in un fatto scenografico, come su di un palcoscenico dove le quinte laterali, semiaperte a tutta una visualità, mettono a fuoco l’elaborato nella sua completa rilevanza…» (Mario Maiorino, presentazione al catalogo della mostra Il mondo in un sipario, 1978).

  Ma Maiorino parla a lungo di questo periodo, specie degli anni che vanno dal 1976 al 1978. Sottolinea  la natura mediterranea dell’artista nella predilezione di una particolare figuratività; sottolinea, contemporaneamente, il valore simbolico della stessa figuratività. Seziona le opere e le ricompone «…alla luce di uno scenario aperto a mo’ di sipario o a mo’ di drappeggio o di velatura, con merletti e veli trasparenti…».

  Certo, occorre un’analisi accurata. Gli elementi della natura che Di Riso tratta in queste opere, sono dipinti con maestria, mantengono un gusto squisitamente classico e sono tuttavia pregni del colore e degli umori della nostra terra. I panneggi e i merletti che parzialmente coprono le pitture, sembrano voler preservare una parte intima dell’anima. Nei passaggi di tono ci sono le luci della montagna e quelle della costiera, in un continuo avvicendarsi e conciliarsi. C’è l’infanzia, che è ormai ricordo, ci sono gli echi dell’Accademia, ci sono gli indizi di un cambiamento. L’artista, come vedremo, andrà molto avanti nel suo lavoro; ma non sarà mai riscontrabile un rinnegarsi. Al contrario, troveremo continuamente i segni della rivisitazione, dell’avvolgimento.

  Poco alla volta (siamo nel 1979) i veli e i merletti cadono. Le gabbie, sempre vuote, perdono il loro rigore. Sull’oggetto primeggia la pittura, i colori si accendono, i paesaggi e la natura si allargano fino a perdersi oltre i confini della tela, per respirare in vaste campiture di colore. La tridimensionalità, fino ad ora evidenziata dagli aspetti scenografici, cambia valore. La si legge attraverso alcuni elementi frammentari, attraverso brevi segni colorati e trasparenti, lievemente dipinti sulle larghe masse pittoriche. C’è qualcosa nel colore, ma specie nella spartizione dello spazio, che ricorda le pitture pompeiane. Scrive Gaetano Romano, nella recensione alla personale del 1983 presso la galleria Il Diagramma di Napoli: «…in queste opere c’è un dirottamento o svincolamento dal monopolio delle immagini, per un’esigenza a tratti archeologica di arrivare all’essenziale, che in pittura Di Riso fa coincidere con intense vibrazioni di colore…». Vitaliano Corbi, riferendosi alla stessa mostra, parla di Di Riso quale «…pittore di grande eleganza segnica che consuma l’iniziale nucleo figurativo nel lieve, ma continuo e quasi ossessivo, turbinio della forma: i suoi quadri - continua Corbi - si direbbero evocare campi cromatici attraversati dalla luce e dalla memoria…». E Gino Grassi vede «…un riferimento al segno come punto di partenza per un’autentica pittura senza paraocchi ideologici o estetici e alla disintegrazione della forma, trasformata in nervosi simboli di una gestualità disancorata da vecchi schemi…». Maria Roccasalva, infine, ci parla di negazioni: «…negazioni di oggetti, di spazio, di luce, nel senso in cui questi termini indicano elementi della realtà a noi consueti. Tuttavia - continua - se ci stacchiamo da questa realtà, constatiamo che le forme esistono e rimangono identificabili… emergendo dall’informe del fondo…».

  Dall’informe del fondo… Abbiamo, qui, una premonizione. In una mostra dal titolo Stress, tenuta dall’artista nel 1984 all’A.R.C.I. - Villaggio Vesuviano (è la terza volta che l’artista espone a S. Giuseppe Vesuviano), l’emersione dall’informe del fondo… accade: «…stratificazioni cromatiche, pulviscolo colorato e brandelli di forme fanno da sfondo a figure di animali selvaggi, in moto o in riposo, aggressive come le macchie di colore che schizzano da ogni lato, come le palme appuntite o le frecce, o i numeri computerizzati che sembrano lampeggiare ad intermittenza…». Così si esprime, a proposito di questa mostra, Ela Caroli; e Arcangelo Izzo, in una recensione alla stessa mostra, scrive in questi termini: «…i colori, distesi sulla tela con la felicità e la facilità del gusto di chi conosce lo spazio da attraversare e coprire, non risultano mai di superficie, in quanto il loro spessore dà rilievo alla materia pittorica che produce forme, personaggi, figure e paesaggi… Stress, infatti, significa anche rilievo e pressione e proprio per pressione di alcune zone, prendono forma e acquistano rilievo le immagini…».

  Nel 1985, a proposito di Tribù, personale che l’artista tiene allo Studio Miele di Nola, Vitaliano Corbi, fra l’altro, scrive quanto segue: «…la pittura di Di Riso, nel giro di pochi anni, si è rinnovata profondamente, spostandosi da una poetica sulla soglia dell’astrazione… verso situazioni più complesse ed insieme più riconoscibili nei loro riferimenti figurativi… Riemergono, trasfigurate, le figure che paiono quasi ombre rivelatrici di immagini, còlte sul punto di svanire, quando tutte le differenze… diventano essenziali e si dilatano negli echi della memoria e dell’immaginazione…».

  Nello stesso anno Di Riso espone al Centro Studi Posillipo, in una personale dal titolo Vertigini. Allestisce sulle pareti e sul pavimento un’unica grande opera. «L’aderenza dell’immagine sul piano orizzontale del pavimento, il suo disporsi, cioè, sul terreno, ai nostri piedi, accentua l’effetto dinamico e spettacolare con cui l’artista ha rappresentato l’emersione di un elemento architettonico dalla terra squarciata… L’immagine… mentre esibisce le tracce di una riconoscibile classicità, è il segno di un’arte che, non volendo ridursi al ruolo di superficiale e meschina gratificazione privata, conserva ostinatamente il ricordo e forse la speranza di un’altra sua presenza nello spazio degli uomini» (Vitaliano Corbi, recensione alla mostra). E proprio a causa dello squarcio che consente l’emersione, il colore esplode in una miriade di frammenti di luce che invadono l’opera, creando unità fra tutti gli elementi. Scrive, infatti, Tonino Ticchiarelli: «…il vitalismo segnico e cromatico di Gaetano Di Riso produce una sorta di magica apparizione, ricordo evanescente che presto tornerà a dileguarsi per ricostituirsi in nuova immagine…». Emersione, uno dei lavori più significativi della mostra Vertigini, viene portato nel 1986 ad Ascoli Piceno, in occasione della collettiva Napoli Story.

  La frammentazione dell’immagine, iniziata lentamente intorno al 1979, sfocia, più o meno dal 1984 in poi, in una riconquista oserei dire geniale della forma e dello spazio. Dal mare e dalla terra squarciati o, probabilmente, dalla frattura dell’“io” dell’artista, sale in superficie l’imprevedibile. E non si tratta, qui, di una catastrofe. È come se l’imprevedibile avesse finalmente riconquistato lo spazio che gli è proprio, strutturandosi con esso.

Anche in Albero, opera del 1986 esposta alla Biblioteca comunale di Pomigliano d’Arco in occasione della collettiva Omaggio - 1987, emergono delle forme dall’informe del fondo. Si tratta, forse, di cristalli di quarzo, di vaganti parallelepipedi, di piramidi. Di forme, appunto, con tutta la loro fisicità. Forme che, appena emerse, già appaiono collocate nello spazio che le aspettava. «…zona strana l’abisso, che annienta la separatività, che custodisce più tempi lasciando intuire che si tratta “ab origine” di uno e un sol tempo che si specchia nel reale richiedendo, in condizioni diverse, diverse condizioni di percezione…» (Elvira Procaccini, nel catalogo della mostra Omaggio, 1987).

  Alla collettiva Mare & Costa, organizzata per la Festa provinciale de L’Unità a Castellammare di Stabia (1987), Di Riso espone due lavori: Metropoli e Ville vesuviane. Nella presentazione al catalogo, scrive Arcangelo Izzo: «…oggi, ancor più di ieri, egli crede che il ritorno ad un ordine essenziale, ad un’armonia, sia necessario per salvare non solo il linguaggio, il suo territorio, ma il mondo da una confusione senza limiti…».

  Metropoli e Ville vesuviane preludono ad altre tre grandi opere che nel 1988 l’artista espone alla prima Biennale del Sud, rassegna d’arte contemporanea promossa dall’Accademia di Belle Arti di Napoli. La mostra, nello stesso anno, viene portata al Castello Gambatesa di Campobasso. Di Riso presenta Paesaggio con rovine, Ninfa nel bosco, Lungo il mare. La rassegna, fra l’altro, è un’importante verifica del proprio lavoro alla luce della produzione artistica contemporanea. Vi partecipano, infatti, gli artisti più rappresentativi che operano nell’ambito delle arti figurative.

  Nello stesso anno, con Il flautista, è presente al Palazzo dell’Annunziata di Sulmona, in occasione della mostra nazionale di pittura XV Premio Sulmona. Anche Il flautista, come Albero, emerge dal basso. Emerge fra una serie di elementi (figure geometriche, archeologiche, conchiglie marine) e trova facilmente la sua collocazione. «Le sue luci, le sue ombre, i suoi azzurri… mi rallegrano il respiro. E anche il “soma”… Quel “soma” che, presso i Greci, designava la parte di noi condannata a perire. Ma Di Riso la alimenta col suo soffio, e celebra in tal modo il soma vivente, non quello perituro. Perciò non m’inquieta; anzi mi rallegra, e l’allegria è anche speranza…» (Luigi Compagnone, nel catalogo della mostra Gaetano Di Riso - Variazioni in cinque tempi: 1987 – 1991).

  In occasione della personale Paesaggio con rovine (Napoli, Art & Image, 1990), la “CUEN” pubblica una monografia che porta il titolo della mostra. I testi  sono di Michele Prisco, Arcangelo Izzo, Vitaliano Corbi, Matteo D’Ambrosio. I brani che seguono, tratti dalla citata monografia, sono illuminanti per la comprensione del lavoro dell’artista.

  Michele Prisco: «…come se gli accordi cromatici nascessero da soli, creassero essi direttamente e spontaneamente le forme… Ma, al tempo: non si commetta l’errore di considerare, per quel che ho detto, Di Riso un pittore istintivo… Dietro questa “libertà” espressiva c’è sempre, a renderla reale ed effettuale, l’emozione, anzi l’idea, il concetto dell’artista…».

  Arcangelo Izzo: «Nei quadri di Di Riso non c’è un soggetto, non si legge un contenuto o un racconto letterario; ma dietro e prima del quadro s’intuisce un pensiero forte…».

  Vitaliano Corbi: «Il corno luminoso della luna, spuntando in alto, dietro la montagna alla cui base s’aggirano tempestosi flutti notturni, s’unisce alla vetta frondosa e vi imbandisce una singolare “natura morta”, che non tanto rompe con una nota diversa la greve atmosfera circostante, quanto provoca una brusca riduzione di scala e un ridimensionamento della terribilità del luogo. Questa rivela l’insospettata natura ludica dell’artista, proprio come se si trattasse di una scena allestita per gioco…».

  Matteo D’Ambrosio: «La scena ha preso il posto del racconto, rimangono visioni isolate e sofferte del destino dell’uomo e delle cose…».

  Prisco parla dell’“idea” e del “concetto” dell’artista, che sono dietro la libertà espressiva; Izzo ci dice che non c’è racconto letterario, che dietro e prima del quadro s’intuisce “un pensiero forte”. E questo pensiero, per Corbi, è “un’insospettata natura ludica… una scena allestita per gioco”; per D’Ambrosio esso è “la scena”, la scena che sostituisce il racconto. I concetti, come si può notare, sono molto vicini fra di loro.

  È il 1991. Oltre alla già segnalata mostra Gaetano Di Riso - Variazioni in cinque tempi, tenuta nelle sale della Biblioteca comunale di Piano di Sorrento, dove espone un cospicuo numero di opere che vanno dal 1987 al 1991, l’artista partecipa, col quadro Valico a nord, alla collettiva Un incontro con la pittura, nella chiesa di S. Salvatore a Capua. Questi lavori segnano un passaggio decisivo, una vera e propria scelta, dietro la quale si percepisce, più che altrove, un pensiero forte.

  Alla personale del 1992 (Le pagine della Terra), che ha luogo nei locali del centro culturale Cantieri di mare a sud ovest, in Castellammare di Stabia, Di Riso espone una serie di opere blu. Il blu è sempre stato un colore importante, spesso predominante e qualche volta, specie negli ultimi tempi, quasi assoluto nella pittura dell’artista. Ora padroneggia, è solo ad attraversare le zone in luce e quelle in ombra, gli avvallamenti, i picchi della terra. Ogni cosa che ha raggiunto la superficie, ha trovato comunque la sua collocazione, probabilmente dopo molte trasformazioni, molti assestamenti. Ora, però, quello che è rimasto sta tutto lì, non sulla terra; ma assieme ad essa. Le opere non ci dicono da quanto tempo ciò è accaduto. Si tratta certamente di un tempo lungo, forse troppo lungo per poterlo ancora chiamare tempo. Ma sappiamo, perché riusciamo a percepirlo, che in quell’occasione anche qualcos’altro è emerso tra i fumi e le pietre, e ora sta lì che respira. Si tratta di una dolce umiltà. Pare che l’artista non chieda più molto alla terra. Non pretende più che si laceri. Ora desidera soltanto che la terra mostri ciò che vuole mostrare. L’artista la guarda dall’alto, spesso non distingue i particolari e deve avvicinarsi. Poi, per imparare a conoscerla, per imparare a guardare il corpo della terra, è costretto a tornare su. Alla fine può scendere, può camminare. Cammina a lungo. È tutto azzurro. La terra è azzurra, forse perché è anche cielo. Calpesta qualche ferita, camminando; ma per lei il dolore è una vecchia conoscenza. A un tratto lui si perde, non lo si vede più, e capiamo che si è fuso con la terra. Per un attimo le opere non sembrano più quadri. C’è un solo corpo, immenso, proprio di fronte a noi.

Last Updated ( Monday, 24 January 2011 18:52 )